Incontri sui beni comuni, Pisa 15 marzo 2011
Intuitivamente, quando parliamo di beni comuni intendiamo cose come la conoscenza, l’acqua, l’atmosfera, i pascoli e le lingue. La conoscenza, però, può essere soggetta a diritti di proprietà intellettuale, il servizio di distribuzione dell’acqua può venir privatizzato e i pascoli possono essere recintati. Come dobbiamo trattare questa comunanza? Come un carattere intrinseco del bene o come una conseguenza del suo regime giuridico?
Per gli economisti mainstream, una volta che un bene è privatizzato cessa di essere comune e non è più un problema, perché la proprietà privata garantisce l’efficienza del mercato come fattore di benessere sociale. Ma se lasciamo in sospeso la questione del carattere intrinseco o estrinseco (giuridico) della comunanza del bene, possiamo dire che un bene è comune quando non è esclusivo, cioè tutti possono fruirne, o per necessità – perché non è privatizzabile – o per scelta.
Per la teoria economica mainstream, la non esclusione è un male, perché produce inefficienze, che si incarnano nella figura del free rider – uno che approfitta gratis di quanto pagano gli altri – e, quando il bene è “rivale”, tragedie: le risorse comuni che, come tali, non interessano a nessuno in particolare, sono destinate a venir dissipate, o a non essere neppure prodotte. Quando un pascolo è “di tutti”, ciascun pastore ne approfitterà fino a farlo diventare un deserto. Perché, dunque, dovremmo rinunciare a escludere un bene escludibile?
Perché mai – per esempio – il traduttore italiano di The Tragedy of the Commons ha scelto di pubblicarlo qui, ad accesso aperto, anziché tenerlo ad accesso riservato e farsi pagare?
In primo luogo l’esclusione ha dei costi, anche sociali. Se impedisco ai poveri di accedere all’acqua, facilito il diffondersi di epidemie dovute a una scarsa igiene. Se metto The Tragedy of the Commons sotto copyright, obbligo chi volesse tradurlo in italiano a quarant’anni dalla sua uscita, anche gratis, a un’estenuante ricerca dei detentori attuali dei diritti. Gli economisti mainstream sono talmente innamorati dei recinti da preferire l’integrazione del reddito all’apertura dei cancelli, ma questo stesso modo di ragionare presuppone che il più fondamentale dei beni comuni sia un certo benessere di base per tutti.
In secondo luogo, esistono casi – su questo Elinor Ostrom ha vinto un Nobel per l’economia – in cui forme di proprietà comune riescono ad essere usate e amministrate cooperativamente in modo non tragico. Studi empirici hanno indicato che la propensione a cooperare è inversamente proporzionale alla disuguaglianza fra gli attori.
In terzo luogo, il mercato può escludere dalle decisione sul bene persone che pure avrebbero interesse ad esso: poveri, generazioni future e non-fruitori. In questo momento non posso fare a meno di soffrire per il Giappone – che ha compiuto scelte energetiche certamente dannose per le generazioni future in nome di un utile privato immediato – anche se non vi possiedo qualcosa di patrimoniale, né potrei permettermelo.
Se trattiamo il mercato come un sistema di promozione del benessere sociale, i beni comuni – come beni escludibili che però si sceglie di lasciare senza recinto – sono una sfida. Una sfida che suggerisce una domanda: quando e come è possibile “fare meglio” del mercato?
Ho reso comuni questi appunti creativi della conferenza di Maurizio Franzini – perché arricchiti con link ed esempi miei – pur potendoli tenere per me. Perché l’ho fatto? E perché dovrei continuare a farlo? Questa domanda riguarda la conoscenza – un bene comune molto particolare, di cui avrò modo di parlare ancora.
Immagine tratta da M. Guidi, Beni pubblici e risorse comuni