Google e il giudizio dei morti

Alla fine del Gorgia di Platone c’è una favola dedicata agli errori giudiziari di un tribunale a cui nessun mortale può sottrarsi: quello che decide il nostro destino nell’oltretomba.

Una volta – racconta Socrate – si moriva su appuntamento e ci si presentava al processo preliminarmente, da vivi: i giudici, anch’essi vivi, si facevano ingannare dall’aspetto, dalla storia e dal prestigio degli imputati e premiavano e castigavano chi non lo meritava. Zeus, non disponendo di magistrati che non guardassero in faccia nessuno, adottò un rimedio radicale: eliminare dal giudizio la faccia.

Ora si muore senza preavviso e si viene processati, morti, da giudici morti, privi di corpo, anime di fronte ad anime. Non siamo più voci anagrafiche, reputazioni e posizioni sociali: siamo astrazioni d’idee, di progetti e d’azioni. Anonimi.

I giudici dei morti, non abbagliati dal suo potere, vedono un tiranno come tale e lo castigano per l’eternitàlasciandolo incatenato a se stesso. Tutti gli altri vengono puniti o premiati, ma la metempsicosi dà sempre loro una seconda possibilità – un’altra vita, un altro nome, un altro corpo.

Platone sarebbe favorevole all’anonimato in rete. L’anonimato non nasconde, ma rivela: un’astrazione dice di sé qualcosa di molto più ricco e interessante di chi è obbligato in una faccia: le sue idee, i suoi sogni, i suoi progetti. Perfino i troll, col loro comportamento, raccontano che cosa gli piacerebbe essere. L’anonimato è il futuro, la faccia è il passato.

E’ stato mostrato con solidi argomenti come lo scoraggiamento dell’anonimato da parte di Facebook e Google+ sia uno strumento di controllo economico e politico. Il mito di Platone, però, fa guardare all’anonimato non dalla parte di chi viene osservato, ma da quella di chi osserva. Quando non sappiamo chi ci sta parlando, siamo obbligati a considerare soltanto le idee e a prenderle sul serio, essendo preclusa la strategia rassicurante di ridurre le grandi idee ai loro piccolissimi portatori. In rete ho imparato moltissimo da persone che, incontrate faccia a faccia, non avrei preso sul serio o  non avrei osato avvicinare.

Questa rete che fa paura ai padroni del discorso, perché induce a rispettare poco le gerarchie esistenti, è però solo il regno dei morti. Chi vuole agire nel mondo dei vivi deve metterci la faccia. Le rivoluzioni non si fanno su Twitter ma scendendo in piazza a rischiare la pelle e a sperare che ne parli al-Jazeera.

Arlene Saxonhouse, in un libro ad accesso chiuso che devo citare così, scrive che neppure la più aperta delle democrazie può sussistere senza vergogna, o senza controllo sociale. Il regno dei morti – il mondo virtuale della cultura, tanto più libero quanto più anonimo – apre possibilità infinite. Se una di queste si attua riceve una faccia, perché non è più solo una cosa che si pensa, ma anche una cosa che si fa e diventa limitata e controllabile, semplicemente perché è visibile.

Non è però identico essere controllati dal tribunale di Atene o da multinazionali private poco trasparenti, specialmente se cercano di ridurre il regno dei morti sotto il controllo sociale del regno dei vivi. La libertà di noi vivi, le nostre idee, i nostri sogni, i nostri futuri virtuali, sta nel poter essere altro da quello che siamo. Per questo è così importante mettere le mani sul mondo dei morti, e sarebbe altrettanto importante difenderlo.

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