Il tribunale di Atene

I fautori del peer review dell’età della stampa lo giustificano, spesso, con un argomento pragmatico. Gli accademici sono anche vili: nessuno di loro oserebbe mai criticare apertamente il lavoro di un accademico massimo, ben sapendo che ne potrà ricavare del danno. L’ombra impenetrabile delle aule dei peer reviewer – pari soltanto di nome – protegge la serenità del loro giudizio.

Questo ragionamento assume dall’epoca della stampa che i revisori siano pochi e dunque timorosi. Non è necessariamente così.

Ad Atene, per evitare che i giudici fossero corrotti o intimiditi, i tribunali avevano assunto la forma di grandi giurie popolari, composte per sorteggio. Socrate, per esempio, fu processato davanti a 500 giudici, non ricattabili proprio a causa del loro numero. Il peer review in rete ex post comporta, di fatto, una situazione simile.

Socrate, lo sappiamo, fu condannato. E si deve ammettere che fu condannato perché il suo tribunale non era composto da specialisti, ma da giurati casuali, facile preda del retore più abile.

Però il processo fu pubblico e il dibattito non si chiuse con la condanna di Socrate. Platone, diffondendo liberamente la sua autodifesa e lavorando per costruire comunità di conoscenza, riuscì a imporre il valore del suo maestro che perdura nei millenni. Il peer review tradizionale avrebbe potuto riconoscere meglio di così la statura di un pensatore coraggioso e originale come Socrate?

Secondo una vecchia battuta, Socrate non sarebbe mai potuto diventare professore perché non ha scritto niente. Ma un editor frettoloso e due referee scelti accidentalmente avrebbero proceduto meglio dei giurati ateniesi – avendo, in più, la garanzia che né il lavoro socratico, né il loro giudizio sarebbero mai stati oggetto di dibattito pubblico? Siamo sicuri che il tribunale di Kafka sarebbe miglior giudice di quello di Atene?

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