Archive for ‘ricercatori precari’

31 ottobre, 2008

Giavazzi e la “stabilizzazione per decreto”

In un articolo di cui ho già parlato, Giavazzi scrive, a proposito delle rivendicazioni dei ricercatori precari:  “Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato”.

Bene. Mi piacerebbe sapere quali sono le sue fonti.

A me risulta – come si può vedere da questa ipotesi di piattaforma – che i ricercatori precari chiedano essenzialmente due cose:

– un contratto unificato di ricercatore a tempo determinato, che regoli e riconosca il lavoro occulto, ma indispensabile, attualmente svolto dai precari;

– un sistema serio di concorsi che successivamente permettano, a chi se lo merita, l’accesso al ruolo a tempo indeterminato.

Le grandi sanatorie che impongono assunzioni ope legis spostano semplicemente il problema del precariato dalla generazione precedente alla generazione successiva. La sanatoria del 1981 ha già fatto assaggiare a molti studiosi della mia età il sapore volatile della precarietà. Che sia ingiusto macellare i giovani per darli in pasto ai vecchi lo sappiamo tutti benissimo, per esperienza personale.

26 ottobre, 2008

Questo non è il ’68. Questo è il 2008

Insegno a Pisa, una delle città da cui è partita la rivolta degli studenti. Ho fatto regolarmente lezione, entro i limiti stabiliti dalla legge, tranne nei giorni in cui la didattica era stata dichiarata ufficialmente sospesa. Come si può vedere dal newswire della mia facoltà, anche i miei colleghi stanno facendo regolarmente lezione. Gli spostamenti d’aula che vengono comunicati sono dovuti solo al fatto che il polo Carmignani è attualmente occupato. Ma, per quanto mi risulta, a nessun professore è stato impedito di fare lezione e a nessuno studente è stato impedito di parteciparvi. Vedo gli studenti che seguono il mio corso sia a lezione sia alle manifestazioni contro (Gelmini)-Tremonti. Di “facinorosi” per ora non ce ne sono: questi sono studenti che vogliono studiare.

Il rafforzamento “identitario” sarebbe – si dice –  il vero e unico senso di queste “rituali” proteste giovanili. Sarà. A me sembra che questo arzigogolo non sia l’unico senso che queste proteste hanno, bensì l’unico che si è disposti a concedergli.  Qui ci sono delle oligarchie senili  e  ossessive, senilmente e voracemente arroccate sui loro privilegi, che vogliono  negare a tutti questi giovani il diritto di dire la loro sul loro futuro; il diritto di potersi elevare socialmente tramite una istruzione pubblica di qualità offerta a prezzi ragionevoli; il diritto di non essere gli unici a pagare per una crisi economica dovuta non a loro, ma alla loro stessa avidità dissennata. Qui si stanno negando ai giovani dei diritti di cui i vecchi hanno abusato senza ritegno, senza che nessuno dei gerontocrati abbia mai fatto nulla per porre a se stesso un freno. E’ una questione di identità? A me sembra un serio, serissimo problema di giustizia.

17 ottobre, 2008

Un paese di tagliagole

L’editoriale di “Nature” Cut-throat savings è dedicato ai tagli alla ricerca italiana e alle proteste che stanno suscitando. Ecco la traduzione della sua parte conclusiva.

Il governo Berlusconi  può credere che siano necessarie draconiane misure di bilancio, ma i suoi attacchi  alle fondamenta della ricerca italiana sono insensati. e miopi  Il governo ha trattato la ricerca come una delle tante spese da tagliare, quando in effetti  è piuttosto da considerarsi come un  investimento per costruire un’economia della conoscenza del XXI secolo. In realtà l’Italia ha già fatto proprio  questo concetto sottoscrivendo gli obiettivi UE fissati a Lisbona nel 2000, per i quali gli stati membri si sono impegnati ad alzare il loro investimento in ricerca e sviluppo al  3% del loro prodotto interno lordo. L’Italia, un paese del G8, ha una delle spese più basse in questo settore – appena l’1.1%,  meno della metà di quello di paesi paragonabili come la Francia e la Germania.

Bisogna che il governo prenda in considerazione qualcosa di più dei guadagni a breve termine prodotti con un sistema di decreti  reso facile da ministri compiacenti  Se vuole preparare un futuro realistico per l’italia, come dovrebbe, non dovrebbe riferirsi oziosamente al passato remoto, ma capire come funziona la ricerca in Europa, nel presente.

Nell’articolo c’è pure una nota di colore  su Renato Brunetta,  il quale ha dichiarato che i ricercatori sono come i capitani di ventura del Rinascimento: dar loro un posto fisso significherebbe ucciderli. Chi è in Italia sa che il ministro sta parlando degli altri e non di sé. Lui, infatti  –  divenuto associato con la grande sanatoria del 1981 e ormai inamovibile professore ordinario dell’università italiana – è già morto da un pezzo.

12 ottobre, 2008

Perché all’università ci sono tanti precari? *

L’università pubblica offre – o dovrebbe offrire – al pubblico un servizio che consiste in:

  • lezioni
  • esami di profitto
  • conferimento di titoli di studio

I cosiddetti ricercatori precari vengono impiegati sia nelle lezioni, sia negli esami, sia nelle lauree.

Quando la facoltà non ha un docente cosiddetto “strutturato”, cioè un professore  regolarmente assunto dall’ateneo, ma è indispensabile insegnare una certa disciplina – di solito perché la legge lo impone  – il preside fa un bando per assegnare il corso “a contratto”. Il contrattista prescelto, in cambio di compensi che vanno da zero a poco più di mille euro, si impegna a fare lezione, a ricevere gli studenti che abbiano bisogno di chiedergli chiarimenti,  a far loro l’esame finale e a seguire gli eventuali laureandi.

Per legge le commissioni di esame devono essere collegiali, in modo da rendere più difficili gli arbitrii .Di solito agli esami, accanto al docente che ha tenuto il corso, c’è un signore che risponde al buffo nome di “culture della materia”.  Questo signore, quando l’università era di élite, era stato pensato come un libero studioso che di tanto in tanto, per diletto, si presentava a discettare col professore e con i suoi studenti. Oggi  i corsi fondamentali, nelle università “storiche”, hanno centinaia di studenti. Questo significa che ciascuna commissione deve fare centinaia di esami: esaminare è un lavoro e non più un passatempo. Chi è oggi il “cultore della materia”? Il dottorando, l’assegnista, il borsista, il contrattista: in altre parole, il precario.  L’alternativa è svolgere l’esame con una commissione monocratica  che poi chiede a un collega di firmare il verbale come se fosse stato presente, commettendo un falso in atto pubblico e rendendo l’esame stesso annullabile.

Per laurearsi è necessario scrivere una tesi. Nelle lauree di primo livello la riforma Berlinguer-Zecchino ha imposto che questa tesi non fosse più un lavoro di ricerca originale, ma qualcosa di più simile a una tesina. Le tesi, però, devono in ogni caso essere lette e corrette da un professore che le presenta alla commissione di laurea.  La correzione delle tesi si deve spesso fare riga per riga, supplendo alle lacune lasciate nei gradi di istruzione precedente. Ci sono professori che hanno centinaia di laureandi. Chi li aiuta in un compito che legalmente dovrebbe essere solo loro, ma che è divenuto umanamente impossibile soddisfare da soli? I soliti precari.

I precari che lavorano nelle commissioni d’esame e sulle tesi tipicamente hanno contratti e assegni temporanei legati a funzioni di ricerca e non di didattica. Però fanno didattica. Perché?

Perché i finanziamenti all’università pubblica, nei decenni, sono stati sistematicamente e costantemente tagliati, da sinistra e da destra. Il risultato è che, già ora, non ci sono abbastanza docenti di ruolo per insegnare nei corsi, non ci sono abbastanza commissari per fare gli esami, non ci sono abbastanza professori per correggere le tesi.

Quale sarebbe stata la soluzione di questo problema? Imporre un sistema concorsuale serio e assumere più professori.

Non essendo stata seguita questa via, il sistema che possiamo compiacerci di chiamare baronale ha adottato quest’altra: far uso dei precari in cambio della promessa di un posto fisso futuro. Cinicamente, questo sistema è riuscito a ottenere quanto la legge pretendeva: assicurare un servizio pubblico con costi molto più bassi del dovuto. Dietro i baroni e i loro servi della gleba c’è  – c’era – semplicemente una versione accademica del lavoro indecente. E un ceto politico che preferisce spendere i soldi delle vostre tasse altrove.

Che si ottiene tagliando ancora? Soltanto questo: che l’università pubblica non riuscirà a svolgere i suoi servizi neppure col lavoro indecente, perché i precari verranno privati perfino del miraggio di un possibile concorso disperso nel più remoto futuro. Qui non si sta eliminando l’università baronale. Si sta eliminando l’università pubblica.

* Questo post è parte di un servizio surrogatorio di utilità collettiva, ad uso dell’opinione pubblica negativa che si trovasse a passare di qui.