Sul detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” è un saggio che Kant pubblicò nel 1793. E’ un testo filosofico, ma anche politico, che si interroga sulla legittimità della Rivoluzione Francese. Qui c’è la mia versione integrale, con una licenza Creative Commons che permette a chi vuole di riprodurla e migliorarla senza dover tradurre tutto ogni volta da capo, come sarebbe inevitabile se l’avessi sottoposta a un copyright più rigido.
Il vecchio e metodico Kant si era talmente entusiasmato degli ideali della Rivoluzione Francese da venir meno alla sua leggendaria, maniacale puntualità per comprare le gazzette con le ultime notizie. Però, se leggiamo questa parte del testo, sembra che per lui la rivoluzione non si possa proprio fare. Perché? Perché se ognuno di noi cominciasse a rispettare solo le leggi e le sentenze che ritiene giuste, subito dopo sparirebbe lo stato di diritto, e ciascuno farebbe un po’ come gli pare, imponendo le sue ragioni agli altri con la forza.
In termini più tecnici, l’esercizio del diritto di resistenza è per Kant sempre illegittimo perché la condizione civile implica la delega del potere di dirimere le controversie a un giudice terzo fra le parti, il quale sentenzia secondo leggi pubbliche coercitive: chi volesse decidere di testa sua disconoscendo il potere del giudice ricadrebbe in una condizione incivile detta stato di natura. Lo stato di natura, come lo intende Kant, è una situazione in cui la gente ha un’idea di che cosa sia giusto e ingiusto, ma in cui tutti sono giudici in causa propria, perché nessuno ammette un giudice terzo. Così, quando qualcuno litiga con qualcun altro, ciascuno dei due litiganti, che è anche giudice, tende a dar ragione a se stesso, cioè giudica la propria causa in conflitto di interessi. Alla fine i due litiganti ricorreranno alla forza, poiché nessuno dei due riconosce l’autorità dell’altro, e il più forte prevarrà. Perché l’esito di un conflitto di interessi strutturale non può che essere la legge del più forte.
Ma come poteva uno come Kant entusiasmarsi tanto per la Rivoluzione Francese, che era un supremo esercizio del diritto di resistenza? La risposta è nascosta nell’ultimo paragrafo di questo corollario: se chi è al potere andasse proclamando che la sua autorità non si fonda sul diritto, ma sulla forza – sulla forza di un esercito, di una maggioranza o anche più sottilmente di un monopolio della comunicazione che nega la libertà della penna – chi gli si oppone potrebbe essere tentato di andare a vedere se questa forza è davvero schiacciante, confrontandola con la sua. Potrebbe, cioè, essere tentato di fare la rivoluzione, proprio perché il potere non si fonda più sulle ragioni della ragione, ma su quelle della forza. E questa rivoluzione, in un paese in cui non regna il diritto, non sarebbe neppure illegittima. Perché ci fosse illegittimità ci dovrebbe, intanto, essere il diritto.
Kant chiama il ricorso alle ragioni della forza “salto mortale” della ragione. “Salto mortale” è una espressione italiana che spicca nel testo tedesco. Anche allora, a quanto pare, gli italiani si facevano riconoscere come saltimbanchi.
I salti mortali sono pericolosi perché se si riduce la legittimità alla forza, se si disconosce l’autorità dei giudici, se si nega l’autorità del diritto – se si rappresentano importanti questioni giudiziarie come conflitti fra politici e giudici, o fra giudici e giudici – si rischia di venir ripagati con la stessa moneta.
A Kant, ogni tanto, venivano in mente delle idee strane. E a me ogni tanto viene voglia di spiegarle. Deve essere un vizio professionale.