Archive for ‘valutazione della ricerca’

1 Maggio, 2017

Camminare davanti a Zenone: un esperimento di revisione paritaria aperta

Raffaello, Particolare della Scuola di AteneLa revisione paritaria (peer review) è una parte importante della procedura che conduce alla pubblicazione di un articolo in una rivista scientifica tradizionale, costruita e pensata per la tecnologia della stampa. A due o più studiosi di campi disciplinarmente pertinenti, selezionati discrezionalmente dalla redazione della rivista e protetti dall’anonimato, viene chiesto di pronunciarsi ex ante sulla pubblicabilità di un testo. Quanto i revisori scartano non vede la luce; e, analogamente, rimangono nell’ombra i loro pareri e la loro eventuale conversazione con gli autori, che ha luogo solo per interposta persona.

La revisione paritaria aperta ed ex post consente invece di rendere pubblica l’intera discussione e di riconoscere il merito dei revisori, i quali, come gli autori, rinunciano all’anonimato.

In questo spirito, il Bollettino telematico di filosofia politica propone alla revisione paritaria aperta due articoli appena pubblicati:

Questo è solo l’inizio:  l’articolo continua qui.

25 gennaio, 2017

Valutazione della ricerca 2011-2014: i “miei” risultati

La mia amministrazione, che si era sottomessa all’Anvur al mio posto, ha spuntato i risultati che pubblico, come promesso, qui sotto. Lascio a chi passa di qui il compito di valutare che cosa dicano di più – o di meno – del libro che chiunque può leggere per conto proprio in rete.

vqr2014

16 marzo, 2016

VQR: la sottomissione della mia amministrazione

Nel comunicato con cui l’ANVUR dichiara conclusa la sottomissione dell’università italiana sono inclusa tra gli ubbidienti. L’atto di sottomissione, però,  è stato compiuto dalla mia amministrazione e non da me.

Per assicurare, per quanto è in mio potere, la trasparenza per la quale l’ANVUR non brilla, racconto qui che il testo amministrativamente sottoposto alla VQR è la versione, cartacea e quindi meno aggiornata, di questo ipertesto, già da tempo esposto all’uso pubblico della ragione. Come già fatto la volta scorsa con esiti piuttosto interessanti, mi impegno a render pubblici qui i risultati della VQR subita dal mio testo anche e soprattutto se fossero negativi.

Questa volta, in più, scriverò una lettera aperta alla Società italiana di filosofia politica per farle sapere che e perché condivido tutte le richieste delle petizione #stopVQR e per segnalare al mio anonimo revisore che può guadagnarsi i suoi 30 euro senza addentrarsi in improduttive questioni di filologia kantiana, semplicemente rilevando la devianza ideologica dell’introduzione del volume del quale dovrà valutare, di nascosto, la Qualità dell’Obbedienza.

23 gennaio, 2016

VQR: la mia obiezione di coscienza

La comunicazione della scienza non è un suo elemento accessorio: è parte della scienza stessa. Lo sapeva Platone, che discusse per un intero dialogo della possibilità di una retorica – di una scienza della comunicazione – che sia a sua volta parte della scienza; lo sapevano i membri della Royal Society, che fondarono – da scienziati, non da editori – la prima rivista scientifica moderna; e lo sa anche chi diffida di pubblicità del tipo “Vuoi dimagrire? Chiedimi come” perché offrono – a scatola chiusa – un prodotto alla vendita e non una procedura alla discussione.

Per questo motivo sono convinta che una valutazione della ricerca – come quella italiana delle scienze umane e sociali – che fa largo uso di liste di riviste stilate da funzionari governativi violi la libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento, protette dall’articolo 33 della costituzione. Mentre la rivoluzione digitale ci invita, proprio come all’inizio dell’età della stampa,  a sperimentare nuove forme di pubblicazione e di comunicazione, la valutazione italiana della ricerca, burocraticamente nota come VQR, ci incatena a un modello, quello dei core journals della seconda metà del XX secolo, il cui esito oligopolistico è noto da tempo. Come ho diritto, in quanto cittadina, alla libertà d’espressione, così, in quanto ricercatrice, devo poter fare uso pubblico della ragione nel modo che preferisco.

Non voglio, dunque, essere valutata? No: non voglio essere valutata così. Voglio essere valutata dai miei pari, in un dibattito libero e aperto, e non da funzionari governativi, ossia da pari che non sono più tali, perché la loro autorevolezza non dipende più dalla bilancia della loro acribia, ma dalla spada di una nomina statale. Nel XX secolo ci sono stati periodi in cui lo stato ha preteso di distinguere la scienza buona da quella cattiva: tedeschi, italiani e russi dovrebbero averne memoria. Il sistema attuale usa mezzi più morbidi, ma il suo scopo è il medesimo: costringere la ricerca entro un modello ideologico che non merita neppure di essere chiamato aziendalistico. Contro questo modello, contro la scienza di stato, faccio obiezione di coscienza.

Nel caso mio, l’obiezione è particolarmente semplice. Tutte le mie pubblicazioni recenti sono ad accesso aperto: chiunque usi la rete può valutare se danneggio o no il mio ente con la mia inoperosità. Le mie pubblicazioni sono anche depositate nell’archivio di ateneo. Per sottoporle alla valutazione della ricerca mi basterebbero un paio di click, che però non verranno dal mio mouse.

È una posizione ipocrita? Non so: se non fossi isolata, sarei disposta a fare molto di più. Nella situazione in cui mi trovo, però, i miei mancati click fanno la differenza fra un’obiezione di coscienza che mi espone a qualche – sopportabile – rischio e il collaborazionismo. Dopo aver subito e criticato pubblicamente la VQR una prima volta, senza ottenere nessuna modifica di sostanza, dopo che si è reso evidente che l’operazione ha poco a che vedere con l’eccellenza scientifica e molto, invece, con l’esercizio del potere,  il mio click segnerebbe la mia accettazione, o la mia rassegnazione, al principio che lo stato ha titolo a stabilire – come nella Germania nazista, come nell’Italia fascista, come nella Russia stalinista –  che cosa è scientifico e che cosa no.  L’amministrazione della mia università, per necessità o per virtù, può pensarla diversamente da me:  se è così, può fare quei due click al mio posto, assumendosene la responsabilità.

L’obiezione “Che senso ha astenersi? Se non lo fai tu lo farà qualcun altro” è un argomento da collaborazionisti.  In primo luogo, chi lo dice rifiuta perfino la responsabilità su se stesso, cioè su quella porzione di mondo che, come agente morale, è formalmente sotto il suo controllo, per farsi trascinare da una necessità soltanto presunta. In secondo luogo il suo comportamento, aggregato, offre al regime esattamente quello che cerca: la diluizione della sua responsabilità nella miriade dei piccoli click di tanti piccoli collaborazionisti. A chi mi dice “Se non lo fai tu lo farà qualcun altro” rispondo: “Intanto io non lo faccio”.

Nell’Apologia si racconta che, quando i Trenta Tiranni, per coinvolgerli nei loro crimini, ordinarono a Socrate e ad altri cittadini di arrestare Leonte di Salamina, Socrate ignorò l’ordine e se ne andò a casa. Il suo gesto isolato non ebbe nessun effetto politico. Filosoficamente, però, non fu senza significato: di fronte a un potere che pretende di dominare le coscienze,  è la  coscienza che deve opporre la sua obiezione. Non importa qui – ancora –  quello che farebbe o farà qualcun altro.

Un professore ordinario, facendo obiezione di coscienza alla VQR, rischia infinitamente di meno di quanto rischiasse Socrate di fronte ai tiranni. A maggior ragione, dunque, in un momento in cui opporsi alla scienza di stato non è ancora divenuto difficile, ubbidire sarebbe viltà. Mi vergognerei, non meritando di essere ricordata come Socrate, di essere ricordata come un Carlo Anti o un Sabato Visco.

3 ottobre, 2015

Sulla revisione paritaria anonima

L’anonimità dell’esaminatore è […] un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi.

Non l’ho scritto io. L’ha scritto il matematico Giorgio Israel in un libro del 2013, Chi sono i nemici della scienza?, che ho scoperto troppo tardi.  Perché veneriamo istituzioni così condiscendenti con le nostre viltà?