Nel bel mezzo dell’agosto, agli utenti italiani è stata reso relativamente inaccessibile un celebre sito svedese di torrents, The Pirate Bay, in virtù di un mandato di sequestro preventivo di un pubblico ministero di Bergamo. Alessandro Bottoni lo analizza nei dettagli qui. Il reato di cui i pirati svedesi sono stati accusati è, prevedibilmente, la violazione del diritto d’autore.
The Pirate Bay ha reagito così, tacciando l’Italia di fascismo.
TPB indicizza dei piccoli file di metadati i quali, tramite degli appositi programmi liberamente scaricabili, permettono agli utenti di copiare fra di loro file molto più grandi, alcuni dei quali, per avventura, sono coperti da copyright. Sul sito di TPB ci sono solo i metadati. I file che gli utenti copiano, sono forniti dagli utenti stessi.
TPB, in altre parole, è simile a una grande biblioteca specializzata che contiene solo dati bibliografici e testi dedicati all’arte della tipografia. Che, però, non contiene affatto i libri che vengono effettivamente copiati – i quali, a loro volta, non sono tutti necessariamente sotto copyright. Sbarrare il portone di questa biblioteca, quindi, significa rendere difficile non solo la riproduzione abusiva di materiale soggetto a diritto d’autore, ma anche la riproduzione legittima di cose come le distribuzioni Linux, o di oggetti politicamente controversi come questi.
E’ censura? Per i sostenitori della proprietà intellettuale chiudere l’accesso a un discorso non ha nulla di diverso dal proteggere con un cancello il proprio giardino. Come ci sono padroni di oggetti fisici, così ci sono padroni dei discorsi. Questi padroni sono, inizialmente, gli autori, e, subito dopo, gli editori – che sono coloro i quali, tipicamente, si adoperano per difendere la loro “proprietà”, proprio come i buoni padri di famiglia si preoccupano di chiudere i cancelli.
Chi conosce la storia del diritto d’autore, però, sa che il suo antenato era una cosa chiamata privilegio. Nella prima modernità il re aveva la prerogativa di concedere graziosamente a uno stampatore il titolo esclusivo di riprodurre un testo, riuscendo così controllare quello che si stampava con l’interessato appoggio dell’editore a cui il monopolio veniva conferito. Era censura? Dato che la mano pesante del potere politico è evidente, a molti non sarà difficile rispondere di sì. In questo regime, il padrone dei discorsi – colui che decideva chi e come potesse parlare al pubblico ampio della carta stampata – era il re.
Con l’affievolirsi del potere monarchico, si passò dal privilegio al copyright. Il diritto di render pubblico un testo veniva posto, originariamente, nelle mani dell’autore, ma, per poter essere effettivamente esercitato, doveva essere ceduto all’editore. Nell’età della stampa era raro e difficile che l’autore avesse i mezzi per pubblicarsi da sé, Il vero padrone del discorso era dunque l’editore. E’ l’editore che ha ereditato dal re il potere di decidere che cosa pubblicare e che cosa no, il potere di radunare un pubblico e di stabilire che cosa fargli sapere e che cosa no. Questo potere è protetto da un monopolio legalmente garantito che nasce come temporaneo, ma che viene via via prolungato nel tempo ben oltre l’aspettativa di vita delle persone fisiche. E’ censura? Se consideriamo il pedigree di questo istituto, viene voglia di rispondere di sì.
Nell’età della stampa la “censura” editoriale era in parte giustificata dei costi e dai limiti della tipografia, per i quali non era semplicemente possibile stampare tutto, e mitigata dal fatto che ci fossero più editori in concorrenza fra loro. Kant, che aveva capito il rischio, ebbe cura di giustificare il diritto dell’editore solo come tramite per permettere all’autore di raggiungere il suo pubblico, negandogli esplicitamente la facoltà di acquisire un testo allo scopo di non pubblicarlo, e riconoscendo a tutti gli altri il diritto di copiare ad uso personale e di rielaborare variamente i testi senza chiedere il permesso a nessuno. The Pirate Bay, che non distribuisce testi ma permette di riprodurli, e i suoi utenti, che condividono file per uso personale, sarebbero stati difesi dal filosofo di Koenigsberg.
Possiamo parlare di censura se gli editori formano un cartello, o se un editore potente concentra nelle sue mani anche il potere politico, oltre che il monopolio economico? Se il cartello degli editori, di fronte a una nuova tecnologia di riproduzione che rischia di renderli inutili, si adopera per renderla illegale?
Siamo in una situazione in cui dei privati, essendo in grado di influenzare il potere politico, o di impadronirsene direttamente, si attribuiscono il diritto di decidere che cosa pubblicare e che cosa no. I re sono stati sconfitti. Ci si vuole fare credere che il fatto che al loro posto ci siano dei padroni ci rende tutti più liberi. Ma la libertà degli editori, in questo momento, è nemica della libertà del pubblico e di quella degli autori – la libertà di tutti gli altri. La censura dei re, perlomeno, era più onesta.