Posts tagged ‘Platone’

28 gennaio, 2013

Il Simposio di Platone

Sono sparita per un po” perché stavo banchettando sul Simposio – un capolavoro politicamente scorretto, che parla molto più dello spirito della ricerca scientifica che di alcol e di eros.  L’ipertesto che ho composto per gli studenti è disposizione di tutti qui.

L’amore platonico, checché se ne pensi, è capacissimo di andare al sodo, specialmente se si ha la pazienza di approfittare del Perseus Project  per fare i conti col testo greco e di seguire i collegamenti fra un dialogo e l’altro – che sul web possono diventare link, invece che lunghi articoli isolati nella loro inaccessibilità irresponsabile.

13 novembre, 2011

I tiranni

La tirannide è l’esito di una democrazia senza legge. Il tiranno è un capopopolo che approfitta della situazione per guadagnarsi il favore della gente con la propaganda, privatizzare il potere politico e concentrarlo nelle sue mani.

Questa analisi è stata fatta da Platone circa due millenni e mezzo fa: ripetute esperienze di popoli smemorati la rendono ormai poco originale.

Però, a differenza dei moderni che, ammirando l’individualità e l’originalità, vedono il tiranno come una figura tragica, Platone ne coglie la piccolezza. Fra  quello che ci muove – ragione, ambizione o appetito – il tiranno non è governato dall’ambizione. Gli ambiziosi hanno il senso dell’onore e della reputazione: il tiranno ne è privo. Il tiranno è come un tossicodipendente, dominato dagli appetiti, da un’ossessione che viene dalla sua parte animale, senza ragione e senza onore.

Se nella polis – scrive Platone – le persone di questo tipo sono poche, verranno trattate come criminali; se sono molte, la città diventerà una tirannide, dominata da chi ha nell’anima il tiranno maggiore. Un uomo smodato, meschino e ridicolo può afferrare e trattenere il potere solo in una città popolata da anime tiranniche.

Nella piccola e provvisoriamente privilegiata porzione d’Italia che vivo ho visto e vedo studiosi pubblicare ad accesso chiuso e lavorare gratis come referee per le multinazionali dell’editoria scientifica in nome dell’interesse alla propria carriera dichiarando che perché si affermi la pubblicazione ad accesso aperto “ci vorranno secoli”, ho visto professori trattare le critiche come attacchi personali da vendicare nell’ombra, ho visto academic star copiare, o irridere chi si impegna per l’uso pubblico della ragione – ho visto cose, insomma, che ogni Italiano riesce benissimo a immaginare.

Ci siamo abituati a pensare queste meschinità, queste grettezze, come semplicemente umane, o come parte di un carattere nazionale che si descrive con compiacimento, e non come tiranniche: ma non guardare al di là del proprio naso e trattare il mondo come se fosse identico a se stessi – almeno finché il mondo non si vendica – è compiere in piccolo quello che il tiranno fa in grande. Come aveva capito anche Sciascia, la sostanza della tirannide non sta in Don Rodrigo, ma in Don Abbondio – nei tantissimi don Abbondio che l’hanno resa e la rendono possibile. Ed è più facile far cadere il tiranno più evidente, per addossare a lui – alla sua resistibile ascesa – tutte le colpe, che i piccoli che l’hanno costruito.

19 settembre, 2011

Google e il giudizio dei morti

Alla fine del Gorgia di Platone c’è una favola dedicata agli errori giudiziari di un tribunale a cui nessun mortale può sottrarsi: quello che decide il nostro destino nell’oltretomba.

Una volta – racconta Socrate – si moriva su appuntamento e ci si presentava al processo preliminarmente, da vivi: i giudici, anch’essi vivi, si facevano ingannare dall’aspetto, dalla storia e dal prestigio degli imputati e premiavano e castigavano chi non lo meritava. Zeus, non disponendo di magistrati che non guardassero in faccia nessuno, adottò un rimedio radicale: eliminare dal giudizio la faccia.

Ora si muore senza preavviso e si viene processati, morti, da giudici morti, privi di corpo, anime di fronte ad anime. Non siamo più voci anagrafiche, reputazioni e posizioni sociali: siamo astrazioni d’idee, di progetti e d’azioni. Anonimi.

I giudici dei morti, non abbagliati dal suo potere, vedono un tiranno come tale e lo castigano per l’eternitàlasciandolo incatenato a se stesso. Tutti gli altri vengono puniti o premiati, ma la metempsicosi dà sempre loro una seconda possibilità – un’altra vita, un altro nome, un altro corpo.

Platone sarebbe favorevole all’anonimato in rete. L’anonimato non nasconde, ma rivela: un’astrazione dice di sé qualcosa di molto più ricco e interessante di chi è obbligato in una faccia: le sue idee, i suoi sogni, i suoi progetti. Perfino i troll, col loro comportamento, raccontano che cosa gli piacerebbe essere. L’anonimato è il futuro, la faccia è il passato.

E’ stato mostrato con solidi argomenti come lo scoraggiamento dell’anonimato da parte di Facebook e Google+ sia uno strumento di controllo economico e politico. Il mito di Platone, però, fa guardare all’anonimato non dalla parte di chi viene osservato, ma da quella di chi osserva. Quando non sappiamo chi ci sta parlando, siamo obbligati a considerare soltanto le idee e a prenderle sul serio, essendo preclusa la strategia rassicurante di ridurre le grandi idee ai loro piccolissimi portatori. In rete ho imparato moltissimo da persone che, incontrate faccia a faccia, non avrei preso sul serio o  non avrei osato avvicinare.

Questa rete che fa paura ai padroni del discorso, perché induce a rispettare poco le gerarchie esistenti, è però solo il regno dei morti. Chi vuole agire nel mondo dei vivi deve metterci la faccia. Le rivoluzioni non si fanno su Twitter ma scendendo in piazza a rischiare la pelle e a sperare che ne parli al-Jazeera.

Arlene Saxonhouse, in un libro ad accesso chiuso che devo citare così, scrive che neppure la più aperta delle democrazie può sussistere senza vergogna, o senza controllo sociale. Il regno dei morti – il mondo virtuale della cultura, tanto più libero quanto più anonimo – apre possibilità infinite. Se una di queste si attua riceve una faccia, perché non è più solo una cosa che si pensa, ma anche una cosa che si fa e diventa limitata e controllabile, semplicemente perché è visibile.

Non è però identico essere controllati dal tribunale di Atene o da multinazionali private poco trasparenti, specialmente se cercano di ridurre il regno dei morti sotto il controllo sociale del regno dei vivi. La libertà di noi vivi, le nostre idee, i nostri sogni, i nostri futuri virtuali, sta nel poter essere altro da quello che siamo. Per questo è così importante mettere le mani sul mondo dei morti, e sarebbe altrettanto importante difenderlo.

18 luglio, 2011

L’uso anonimo della ragione

A me non disturba l’anonimato in rete. Non mi disturba neppure l’anonimato di questo signore.

Teoricamente, se un’idea è buona, riesce a superare l’individualità e a farsi collettiva. Merita apprezzamento anche se viene da un uomo senza faccia. Ludwig Edelstein, in un articolo del 1961, purtroppo offerto ad accesso chiuso e a un prezzo sproporzionato da una sedicente organizzazione non a scopo di lucro, spiegava l’anonimato di Platone – il suo nascondersi dietro i personaggi dei dialoghi  – con la volontà di far emergere le idee al posto dell’uomo e la comunità di conoscenza con il suo auctor al posto del singolo.

Julie Zhou, usando il mito dell’anello di Gige del secondo libro della Repubblica, ha attribuito a Platone una tesi molto lontana dal suo testo: che quando si è spinti ad andare in rete con nome e cognome, come su Facebook, ci comportiamo in modo più etico, grazie al controllo sociale. Questo argomento  – per il quale sembra irrilevante che le chiavi del controllo siano in mano a un’azienda privata che può sapere di noi molto più di quanto noi possiamo sapere di lei –  è presente nella Repubblica solo come limite da superare: è possibile una giustizia che ci faccia diventare custodi di noi stessi, anziché dipendenti dallo sguardo altrui? E’ possibile una coscienza che abiti nella nostra anima, e non negli occhi della gente?

Se però non si parla di teoria e di coscienza, ma di politica – nel suo senso moderno  – bisogna valutare gli effetti dell’anonimato non su noi stessi, ma sugli altri. Più di due secoli fa, in uno scritto molto famoso, sotto una monarchia assoluta, Kant invocava la libertà dell’uso pubblico della ragione – la libertà per chiunque di spogliarsi della sua veste di funzionario di uno stato o di un partito, di membro di una chiesa, di dipendente di una azienda, per dire quanto pensava come essere razionale nella comunità senza confini di tutti gli esseri razionali.

Questa libertà, per Kant, aveva due scopi, uno prossimo, culturale, e l’altro remoto, politico.

Lo scopo culturale era rendere la gente capace di ragionare autonomamente. Se in un mondo di conformismo, pigrizia e paura qualcuno si alza in piedi e dice quello che pensa,  a qualcun altro può venire in mente che il pensiero unico non è necessariamente l’unico pensiero.

Lo scopo politico era rendere i sudditi capaci di essere cittadini  Se la gente non ha imparato a ragionare da sé, ogni rivoluzione, ogni mutamento di regime si risolve in un mero avvicendamento fra manipolatori.

E’ possibile un uso pubblico della ragione che sia anche anonimo?

Il mugugno, il libello, la scritta sul muro o anche tor  servono a sopravvivere in regimi autoritari e informativamente asimmetrici. Sanno però ottenere gli scopi che giustificano la libertà dell’uso pubblico della ragione?

A me sembra di no. Chi, in un discorso politico, parla da anonimo parla da minorenne e non aiuta gli altri a crescere, perché suggerisce che presentarsi come maggiorenni che osano essere franchi sia pericoloso – che, dunque, non esista uno spazio per l’uso pubblico della ragione  e sia impossibile. diventare, da sudditi, cittadini. I libelli possono preparare le rivoluzioni, ma le rivoluzioni si fanno altrimenti.  Dal mio punto di vista, questa critica all’anonimo italiano più celebre del momento è ben fondata.

17 luglio, 2011

Effetto Fedro

Sembra che i computer, la rete e i motori di ricerca abbiano effetti sulla memoria: ci dimentichiamo più facilmente di quanto crediamo di poter ritrovare e, se dotati di sistemi di memorizzazione esterni, tendiamo a ricordare le procedure per recuperare i dati, piuttosto che i dati stessi.

Questa scoperta è stata raccontata e venduta come una novità in una rivista ad accesso chiuso. Ma è qualcosa che la cultura occidentale conosce da almeno due millenni e mezzo. Si ritrova in un dialogo di Platone, il Fedro, in un famoso mito con il quale Socrate illustra gli effetti della scrittura sul nostro sapere: quando – per conservare l’informazione – ci affidiamo a uno strumento alieno rispetto alle nostre menti e alle nostre comunità, diventiamo più smemorati, o, meglio, la nostra memoria diventa più dipendente da qualcosa di esterno.

E’ interessante notare che Platone, pur essendo consapevole di questo, non smise affatto di scrivere. Cercò, piuttosto, di elaborare una strategia di comunicazione e di ricerca che tenesse insieme la potenza mnemonica del nuovo mezzo con la consapevolezza che né i libri – né Google –  devono ragionare al nostro posto.  Che l’informazione è parte essenziale del sapere, ma non è, da sé e di per sé, sapere.

La sua soluzione – libertà dei testi, per l’informazione, e comunità di conoscenza, per il sapere – fu praticata da tutte le civiltà del manoscritto fino all’età della stampa. Né deve stupire che, in un momento in cui testi possono essere riprodotti con una tecnologia diffusa quanto la scrittura e più veloce della stampa, la strategia  platonica sia ancora una delle possibilità in gioco.