Archive for ‘Gelmini’

2 dicembre, 2013

L’uso pubblico della ragione nell’università post-gelminiana

Kant elogiava Federico II Hohenzollern perché permetteva a chiunque, indipendentemente dalla sua qualità di funzionario, di fare un libero uso pubblico della ragione.  Una volta compiuto diligentemente il proprio ufficio, chiunque, quando parlava come studioso davanti a un pubblico di lettori, poteva dire quello che pensava, su tutto.

Un articolo come “Cervelli in standby”. La mutazione genetica del ricercatore nell’era delle telematiche, scritto da due ricercatori di un’università privata telematica, è in questo senso esemplare. I due autori, una volta compiuto il proprio lavoro, illustrano davanti a un pubblico di lettori la difficoltà di conciliare il carico della didattica, l’autonomia della ricerca e la libertà d’impresa. Oggi, però, veniamo a sapere che una coautrice, Alida Clemente, ha ricevuto una sanzione disciplinare dal consiglio di amministrazione di Unicusano, in quanto, per aver usato la ragione in pubblico, avrebbe leso l’immagine del suo ateneo. 

Non siamo più ai tempi del dispotismo illuminato: con la legge Gelmini, quanto è accaduto ad Alida Clemente oggi, potrebbe accadere domani a me – o a qualsiasi altro docente universitario italiano.

15 marzo, 2011

Lettera aperta sull’accesso aperto: i princìpi (versione 1.2)

Integro la mia Lettera aperta sull’accesso aperto, che proponeva alla commissione statuto dell’università di Pisa l’inserimento di un articolo a promozione e tutela della pubblicazione ad accesso aperto, con altri due commi, proposti in seno alla commissione Open Access della Crui dal giurista trentino Roberto Caso.

1. L’Università di Pisa fa propri i principi dell’accesso aperto e pieno alla letteratura scientifica e promuove la libera disseminazione in rete dei risultati delle ricerche prodotte in ateneo, per assicurarne la più ampia diffusione possibile.

2. L’Università, con apposito regolamento da emanare entro centottanta giorni dall’entrata in vigore del presente Statuto, pone la disciplina finalizzata a dare attuazione ai principi dell’accesso aperto e pieno ai dati e a tutti i prodotti della ricerca scientifica. Nel medesimo regolamento sono dettate le norme necessarie ad armonizzare i principi dell’accesso  aperto e pieno con la tutela della proprietà industriale, dei diritti d’autore e connessi, della riservatezza e della protezione dei dati personali.

3. L’Università promuove, mediante procedure e discipline contenute nel regolamento di cui al comma 2, il deposito dei dati e dei prodotti della ricerca scientifica nel proprio archivio istituzionale ad accesso aperto e pieno.

I due commi aggiuntivi sono stati pensati perché quanto contenuto nel primo comma, abbandonato a se stesso, potrebbe rimanere una dichiarazione di principio tanto nobile quanto astratta. Un impegno statutario ad agire anche sul regolamento dovrebbe aiutare a passare dai princìpi ai fatti.

L’università di Pisa, in questo ambito, non dovrebbe neppure partire da zero. Le basterebbe lavorare per orientare verso l’accesso aperto le politiche di pubblicazione e di archiviazione dei nostri testi e per integrare l’archivio istituzionale con l’anagrafe della ricerca e con la sua valutazione locale in modo tale che eprints.adm.unipi.it non sia più desolatamente vuoto bensì, orgogliosamente, pieno.

Sulla concretezza di scelte come queste si misura la pubblicità dell’università pubblica,  o di quel che ne resta.

26 ottobre, 2008

Questo non è il ’68. Questo è il 2008

Insegno a Pisa, una delle città da cui è partita la rivolta degli studenti. Ho fatto regolarmente lezione, entro i limiti stabiliti dalla legge, tranne nei giorni in cui la didattica era stata dichiarata ufficialmente sospesa. Come si può vedere dal newswire della mia facoltà, anche i miei colleghi stanno facendo regolarmente lezione. Gli spostamenti d’aula che vengono comunicati sono dovuti solo al fatto che il polo Carmignani è attualmente occupato. Ma, per quanto mi risulta, a nessun professore è stato impedito di fare lezione e a nessuno studente è stato impedito di parteciparvi. Vedo gli studenti che seguono il mio corso sia a lezione sia alle manifestazioni contro (Gelmini)-Tremonti. Di “facinorosi” per ora non ce ne sono: questi sono studenti che vogliono studiare.

Il rafforzamento “identitario” sarebbe – si dice –  il vero e unico senso di queste “rituali” proteste giovanili. Sarà. A me sembra che questo arzigogolo non sia l’unico senso che queste proteste hanno, bensì l’unico che si è disposti a concedergli.  Qui ci sono delle oligarchie senili  e  ossessive, senilmente e voracemente arroccate sui loro privilegi, che vogliono  negare a tutti questi giovani il diritto di dire la loro sul loro futuro; il diritto di potersi elevare socialmente tramite una istruzione pubblica di qualità offerta a prezzi ragionevoli; il diritto di non essere gli unici a pagare per una crisi economica dovuta non a loro, ma alla loro stessa avidità dissennata. Qui si stanno negando ai giovani dei diritti di cui i vecchi hanno abusato senza ritegno, senza che nessuno dei gerontocrati abbia mai fatto nulla per porre a se stesso un freno. E’ una questione di identità? A me sembra un serio, serissimo problema di giustizia.

12 ottobre, 2008

Perché all’università ci sono tanti precari? *

L’università pubblica offre – o dovrebbe offrire – al pubblico un servizio che consiste in:

  • lezioni
  • esami di profitto
  • conferimento di titoli di studio

I cosiddetti ricercatori precari vengono impiegati sia nelle lezioni, sia negli esami, sia nelle lauree.

Quando la facoltà non ha un docente cosiddetto “strutturato”, cioè un professore  regolarmente assunto dall’ateneo, ma è indispensabile insegnare una certa disciplina – di solito perché la legge lo impone  – il preside fa un bando per assegnare il corso “a contratto”. Il contrattista prescelto, in cambio di compensi che vanno da zero a poco più di mille euro, si impegna a fare lezione, a ricevere gli studenti che abbiano bisogno di chiedergli chiarimenti,  a far loro l’esame finale e a seguire gli eventuali laureandi.

Per legge le commissioni di esame devono essere collegiali, in modo da rendere più difficili gli arbitrii .Di solito agli esami, accanto al docente che ha tenuto il corso, c’è un signore che risponde al buffo nome di “culture della materia”.  Questo signore, quando l’università era di élite, era stato pensato come un libero studioso che di tanto in tanto, per diletto, si presentava a discettare col professore e con i suoi studenti. Oggi  i corsi fondamentali, nelle università “storiche”, hanno centinaia di studenti. Questo significa che ciascuna commissione deve fare centinaia di esami: esaminare è un lavoro e non più un passatempo. Chi è oggi il “cultore della materia”? Il dottorando, l’assegnista, il borsista, il contrattista: in altre parole, il precario.  L’alternativa è svolgere l’esame con una commissione monocratica  che poi chiede a un collega di firmare il verbale come se fosse stato presente, commettendo un falso in atto pubblico e rendendo l’esame stesso annullabile.

Per laurearsi è necessario scrivere una tesi. Nelle lauree di primo livello la riforma Berlinguer-Zecchino ha imposto che questa tesi non fosse più un lavoro di ricerca originale, ma qualcosa di più simile a una tesina. Le tesi, però, devono in ogni caso essere lette e corrette da un professore che le presenta alla commissione di laurea.  La correzione delle tesi si deve spesso fare riga per riga, supplendo alle lacune lasciate nei gradi di istruzione precedente. Ci sono professori che hanno centinaia di laureandi. Chi li aiuta in un compito che legalmente dovrebbe essere solo loro, ma che è divenuto umanamente impossibile soddisfare da soli? I soliti precari.

I precari che lavorano nelle commissioni d’esame e sulle tesi tipicamente hanno contratti e assegni temporanei legati a funzioni di ricerca e non di didattica. Però fanno didattica. Perché?

Perché i finanziamenti all’università pubblica, nei decenni, sono stati sistematicamente e costantemente tagliati, da sinistra e da destra. Il risultato è che, già ora, non ci sono abbastanza docenti di ruolo per insegnare nei corsi, non ci sono abbastanza commissari per fare gli esami, non ci sono abbastanza professori per correggere le tesi.

Quale sarebbe stata la soluzione di questo problema? Imporre un sistema concorsuale serio e assumere più professori.

Non essendo stata seguita questa via, il sistema che possiamo compiacerci di chiamare baronale ha adottato quest’altra: far uso dei precari in cambio della promessa di un posto fisso futuro. Cinicamente, questo sistema è riuscito a ottenere quanto la legge pretendeva: assicurare un servizio pubblico con costi molto più bassi del dovuto. Dietro i baroni e i loro servi della gleba c’è  – c’era – semplicemente una versione accademica del lavoro indecente. E un ceto politico che preferisce spendere i soldi delle vostre tasse altrove.

Che si ottiene tagliando ancora? Soltanto questo: che l’università pubblica non riuscirà a svolgere i suoi servizi neppure col lavoro indecente, perché i precari verranno privati perfino del miraggio di un possibile concorso disperso nel più remoto futuro. Qui non si sta eliminando l’università baronale. Si sta eliminando l’università pubblica.

* Questo post è parte di un servizio surrogatorio di utilità collettiva, ad uso dell’opinione pubblica negativa che si trovasse a passare di qui.

8 ottobre, 2008

Il professore va all’assemblea

Oggi sono stata a un’assemblea convocata dai rappresentanti degli studenti allo scopo di informare i rappresentati sulla riforma (Gelmini)-Tremonti di cui ho già parlato qui e qui. Contro le mie aspettative, l’ampia aula del polo didattico Carmignani era completamente piena. C’è, evidentemente, interesse.

Di tutto quello che si è detto, voglio raccontare quanto hanno richiesto i cosiddetti ricercatori precari.  I “precari” quelli che gli studenti chiamano “assistenti”, cioè, in realtà, borsisti, assegnisti e contrattisti. Sono giovani che sacrificano gli anni migliori della loro vita per salari bassissimi, incerti e intermittenti, svolgendo compiti a cui non sarebbero tenuti, ma che sono indispensabili per l’università. Per esempio,  almeno finché l’università resterà pubblica, gli esami – a garanzia dello studente – devono essere svolti da una commissione e non da un professore monocratico. Se non avessi il precario che sta con me a farsi centinaia di esami gratis, io non potrei – legalmente – esaminare nessuno. Perché queste persone, che guadagnerebbero di più se andassero, come si diceva una volta, “a servizio” si sottopongono a tutto questo? Perché sopportano un sistema che è spesso simile alla schiavitù? Soltanto per passione.  Se avessero interessi più terreni  preferirebbero fare gli elettricisti.

Cosa chiedono i “precari”? Che docenti e ricercatori siano solidali con loro, astenendosi da tutta la didattica che non è loro imposta per legge. Per legge, attualmente, un professore non dovrebbe fare più di 60 ore di lezione all’anno, perché per un docente universitario l’attività didattica è qualcosa di collaterale rispetto alla ricerca; quanto ai ricercatori, si chiamano così perché dovrebbero  ricercare e non insegnare. Se  ciascuno di noi svolgesse solo i compiti assegnatigli dalla legge, si vedrebbe che le risorse umane dell’università pubblica sono già tese al limite estremo. I cinquantamila precari della ricerca, che non verranno mai assunti, mentre Geronte Cariatide potrà fare, come insegna il collega, il bello e il cattivo tempo finché non andrà in pensione, sono – in termini di capitale umano – i nostri mutui subprime.

Vogliamo o no una università accessibile a tutti quelli che hanno voglia di studiare? Vogliamo o no un sistema di istruzione e di ricerca trasparente? E’ davvero così ovvio che il denaro delle nostre tasse  debba servire solo a “salvare” l’Alitalia?

I professori amano fustigarsi – come si sa, la situazione dell’università è sempre colpa di tutti gli altri – e rassegnarsi. Col risultato che ciascuno di loro può essere bastonato impunemente – sempre, beninteso, per  colpa di tutti gli altri.

I professori amano lamentarsi perché non godono di buona stampa.  Abituati a considerarsi classe dirigente – come non sono più  – si scoraggiano perché sentono la mancanza di appositi giornalisti che parlino per loro, quando potrebbero benissimo parlare da sé.

Riusciranno, almeno questa volta, a difendere le loro ragioni?

Vedremo domani.

Io ovviamente scrivo tutto questo solo a scarico di coscienza. Perché è sempre, beninteso,  colpa di tutti gli altri.