A proposito della cosiddetta riforma Gelmini può essere interessante leggere in combinato disposto, sia questo articolo di Gennaro Carotenuto, sia questa intervista a un collega, su “Libero”.
La cosiddetta riforma Gelmini decreta, semplicemente, che Oreste Interno, dopo aver passato dieci o quindici anni della sua vita a fare il precario della ricerca, non verrà mai assunto dall’università. Che Pompeo Matroneo, professore associato di belle speranze, resterà associato a vita; e, soprattutto, che il potente professore ordinario Geronte Cariatide potrà arrivare fino alla pensione senza essere toccato quasi in nulla. Non ci sta bene? Niente paura: le università potranno trasformarsi in fondazioni private, che si finanzieranno con le rette degli studenti, i quali si renderanno infine conto del valore dell’istruzione perché la dovranno pagare cara, eventualmente indebitando le loro famiglie con i pratici mutui subprime che tanto furore stanno facendo oltreoceano.
Gennaro Carotenuto scrive cose che tutti coloro che lavorano all’università sanno e condividono. Invece il collega, al di là di una francamente intempestiva esaltazione del modello americano, dice che i professori che si ribellano alla riforma vogliono semplicemente conservare i loro privilegi. Conservare, cioè, il diritto di fare il bello e il cattivo tempo a spese dei contribuenti, gonfiando pletoricamente gli organici con i loro allievi somari, senza dover rendere conto a nessuno. Per questo i professori temono la privatizzazione, che toglierebbe loro il potere di decidere per consegnarlo a “chi mette i soldi”. Un bel dimagrimento è quello che ci vuole.
Il collega, che è un professore ordinario settantenne, sa bene come vanno le cose, nell’università italiana. Dovrebbe anche sapere che, se si impedisce l’ingresso ai giovani e si blocca la carriera di ricercatori e associati, i professori ordinari come Geronte Cariatide – come lui – continueranno a fare il bello e il cattivo tempo, senza avere più nuovi entranti che vengono a contrastarli. Ma come mai è così convinto in una università pubblica “chi mette i soldi” non sia in grado di ridurre a regola le oligarchie accademiche?
Avevo scritto altrove che l’università italiana potrebbe diventare più trasparente se solo prendesse sul serio l’impegno alla pubblicazione ad accesso aperto e se fossero vietate le carriere interne. Ci si potrebbe chiedere perché non lo si è fatto, o non lo si fa. Ma quando mai, in Italia, il contribuente è stato messo in grado di controllare come vengono spesi i suoi soldi? Sarebbe decisamente bizzarro voler cominciare proprio dall’università, col rischio che il contribuente stesso ci prenda gusto e vada a curiosare anche altrove. Molto più comodo passare da un’oligarchia universitaria pubblica che si comporta privatisticamente a una oligarchia universitaria privata che si comporta allo stesso modo.
In una parola: l’università pubblica italiana può essere solo tagliata e non riformata perché l’Italia non è una democrazia. Ma non si deve sapere in giro.