“Una comunità scientifica vigile e aperta”: il caso di Diederik Stapel

Di Diederik Stapel, psicologo sociale olandese che inventava dati sperimentali per scrivere articoli che superavano la revisione paritaria e venivano pubblicati su riviste accademiche di prestigio, ha parlato anche la stampa non specializzata. A smentire la convinzione che per essere scientifici è sufficiente essere pubblicati su “Science”, il direttore della rivista ha scritto una Editorial expression of concern per mettere in guardia i lettori da un articolo uscito nell’aprile 2011, ad accesso chiuso.

Com’è stata scoperta la frode? E’ ora disponibile la versione inglese del rapporto della commissione dell’Università di Tilburg che ha indagato sul caso. La frode, scrive il rapporto (§2.2), consiste o in una totale invenzione dei dati, o nella falsificazione e amplificazione ad hoc di dati esistenti, o nella modifica di dati completi o incompleti.

Quando una frode è di questa natura, e i dati grezzi non sono pubblici, può essere scoperta solo ripetendo la ricerca. E’ dunque scontato che sfugga alla revisione paritaria. I dottorandi e i collaboratori di Stapel si trovavano a ricevere dai dataset già pronti, troppo belli per essere veri, ma garantiti dal professore. Nell’agosto 2011 tre giovani ricercatori, in camera caritatis, manifestarono i loro sospetti al direttore del loro dipartimento, che cominciò un’indagine per conto suo e informò il rettore dei risultati. “I ricercatori meritano di essere lodati” – osserva la commissione (§2.5) – “per aver riferito questi abusi. Va notato che erano in una posizione dipendente e avevano molto da perdere”.

Perché la frode è durata tanto da costruire a Stapel una solida reputazione scientifica nazionale e internazionale? La causa principale è “un fallimento della critica razionale, sistematica, contenutistica, metodologica e pubblica, che è la pietra angolare della scienza” (§3.3). Stapel era un uomo potente, con ottime relazioni, la capacità di catturare fondi di ricerca e di creare rapporti personali, che sapeva trar profitto dalla prassi di tenere i dati per sé e di non renderli disponibili in archivi pubblici – in maniera tale da render impossibile un controllo indipendente esterno. La commissione aggiunge che i ricercatori giovani, pur essendo più vulnerabili, hanno mostrato più coraggio e più spirito d’indagine di professori che avevano molto meno da perdere, e conclude (§4) “La fiducia rimane il fondamento di ogni collaborazione scientifica. Non può essere sostituita da misure burocratiche. Essa, tuttavia, può prosperare solo in un ambiente di ricerca in cui le regole del gioco sono chiare ed esplicite.”

Il professore olandese ha saputo trar profitto da un sistema di pubblicazione ad accesso chiuso e dal carattere altrettanto chiuso dei dati in combinato disposto con la sua capacità di costruirsi relazioni personali per mettere fuori gioco a un tempo i potenziali critici esterni e quelli interni. Ed è stato smascherato non dal  circuito commerciale, ma soltanto perché nell’università olandese è vivo un germe di quello che, come dice Alessandro Figà Talamanca, è l’unico controllo efficace: “una comunità scientifica vigile e aperta”.

Che cosa sarebbe successo se in un’università italiana tre precari fossero andati da un direttore di dipartimento a esprimere i loro dubbi su un professore ordinario molto potente? La risposta è lasciata all’immaginazione del lettore.

In un ambiente corporativo e gerarchico, valutare la ricerca prevalentemente sulla base di criteri bibliometrici rischia non solo di essere meno “meritocratico” di quanto ci si aspetti, ma, soprattutto, di incentivare la mistificazione intellettuale con la certezza che nessuno avrà la possibilità, il coraggio o l’interesse a smascherarci. Quanto è stato difficile in Olanda, può essere quasi impossibile in Italia.

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