Posts tagged ‘editoria scientifica’

12 marzo, 2012

L’accademia dei morti viventi, quinta parte: l’università

E’ uscita la quinta e ultima puntata dell’Accademia dei morti viventi, dedicata all’università. E’ un racconto americano con una conclusione molto europea.

Non tutte le storie finiscono in America. Dovremmo rifletterci, scrivendo la nostra.

8 novembre, 2011

Servi, signori e revisori

Ti chiedono di lavorare gratis, sicuri che considererai un onore la tua prestazione per loro, e vendono il frutto della tua fatica a carissimo prezzo, con margini di profitto fino al 40%.

E’ una delle tante storie di sfruttamento e di lavoro indecente? Sì, ma in luoghi inaspettati, e nei confronti di persone che avrebbero gli strumenti per non esserne vittima.

Di recente ho ricevuto qualcuna di queste proposte. Una multinazionale dell’editoria scientifica mi ha chiesto di fare da peer reviewer per una rivista ad accesso chiuso. La procedura appariva standardizzata, tramite un sito riservato e una corrispondenza che sembrava basata su form preconfezionati. Ho sospettato che anche il mio nome fosse stato selezionato a caso, tramite un bot  per individuare gli studiosi dotati di un rank più alto sui motori di ricerca in relazione a parole chiave pertinenti, con la mediazione umana ridotta al minimo. Un essere umano attento, infatti, si sarebbe reso conto che chiedere collaborazione a chi critica la sua industria è come chiedere a un anarchico di fare il secondino.

Se è almeno in parte come ho immaginato, i prezzi astronomici che i latifondisti della conoscenza impongono alle riviste in nome dei costi del peer review sono difficilmente giustificabili. Una volta installato il sistema, la multinazionale non ha che da succhiare la nostra competenza per rivenderla. Non è capitalismo, perché non siamo pagati. Ma non è neppure schiavismo, perché agli schiavi i padroni davano vitto e alloggio. Noi, che ci nutriamo del fumo della reputazione come gli dei di Aristofane, non riceviamo niente.

Per coerenza personale – ho spiegato – accetto di cooperare esclusivamente con riviste ad accesso aperto, che mantengono pubblico quanto è nato  pubblico. Non sono una mangiatrice di fumo: il mio onore non sta nel salire su un palco ad annunciare che io, la sera, sto a leggere Kant, ma nel fatto che Kant possa essere letto anche grazie al mio lavoro.

Ho raccontato questa storia – omettendo i particolari che potrebbero far rintracciare le riviste e gli autori – perché so che il mio gesto, compiuto soltanto da me, non ha valore. Fatto da tanti, sostenuto da istituzioni, potrebbe diffondere la consapevolezza che è nobile lavorare gratis per i beni comuni, perché arricchisce noi stessi e gli altri, ma  è abietto farlo per chi privatizza il sapere di tutti.

Ciascuno di noi è responsabile del mondo che, con le sue azioni, contribuisce a produrre: quando ci comportiamo da schiavi, in nome di una reputazione definita dall’interesse per la propria carriera e dal marketing altrui, e ci diciamo che la nostra piccola scelta non conta nulla, stiamo tuttavia regalando potere ai signori e al loro mondo di servi e di poveri.  E’ di questa banalità aggregata, di questa grettezza, che sono fatti i Ventenni.

1 settembre, 2011

Monbiot: i latifondisti della conoscenza

Sul Guardian del 30 agosto 2011 è uscito un durissimo articolo dell’ecologista inglese George Monbiot dedicato ai “poteri feudali degli editori accademici”. Non dice nulla di particolarmente nuovo, ma lo dice con chiarezza, in un giornale che non viene letto solo da professori e bibliotecari.

Gli editori scientifici, scrive Monbiot, sono i “capitalisti più spietati del mondo occidentale”. Mentre Murdoch fa pagare una sterlina per 24 ore d’accesso a tutti gli articoli del Times, Elsevier addebita 31,50 dollari, Springer  34,95 euro e Wiley-Blackwell 42 dollari per ciascun singolo articolo. E non si creda di poter trovare gli articoli gratis in biblioteca: a causa dei costi astronomici degli abbonamenti, le biblioteche universitarie consumano il 65% del loro budget in riviste, e dunque, semplicemente, comprano meno libri. Mentre Murdoch stipendia i suoi giornalisti e redattori e le sue società producono i contenuti che vendono, gli editori scientifici sfruttano il lavoro, per loro gratuito, di ricercatori e revisori finanziati con fondi pubblici. L’oligopolio generato dal combinato disposto del copyright e dell’impossibilità, per le università, di disdire gli abbonamenti senza tagliar fuori i loro studiosi dal progresso della ricerca genera profitti astronomici. Quello di Elsevier, per esempio, è del 36%.

Gli editori sostengono che i loro prezzi sono dovuti agli alti costi di produzione e di distribuzione. Ma un’analisi della Deutsche Bank mostra che non è così. “Noi crediamo che l’editore aggiunga relativamente poco valore al processo di pubblicazione […] se questo fosse davvero tanto complesso, costoso e ad alto valore aggiunto quanto pretendono gli editori, non avrebbe un margine di profitto del 40%”.

Questo – prosegue Monbiot – “è puro capitalismo di rendita: monopolizzare un bene pubblico e poi imporre prezzi esorbitanti per usarlo”, o, detto meno gentilmente, “parassitismo economico“.

La situazione è ancora peggiore per i lettori non accademici e i ricercatori indipendenti, a cui viene negato il controllo diretto delle fonti: “Questa è una tassa sull’istruzione, un soffocamento dello spirito pubblico. E’ un’evidente violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la quale dice che ‘ognuno ha il diritto di […] condividere liberamente il progresso scientifico e i suoi benefici’.”

Il movimento per l’accesso aperto non ha mantenuto tutte le sue promesse: nel 1998 l’Economist prevedeva che l’editoria elettronica avrebbe dovuto abituarsi a margini di profitto molto inferiori al 40%. Ma nel 2010 Elsevier ha ancora un profitto del 36%. Questo avviene, secondo Monbiot, per due motivi: i grandi editori hanno messo le mani sulle riviste a impatto più alto, decisive per le carriere accademiche, mentre molti stati non sono andati oltre fumose dichiarazioni di principio.

Che fare? Nel breve termine, conclude Monbiot, gli stati devono pretendere che tutta la pubblicazione scientifica pubblicamente finanziata sia inserita in database ad accesso aperto; nel lungo si tratta semplicemente di eliminare la mediazione, per creare una rete di archivi aperti, con un peer review indipendente e tutti gli strumenti semantici, bibliometrici e statistici che il Web 2.0 sta cominciando a offrire (per i dettagli si veda la slide 98 di questa presentazione di Björn Brembs).

Minima academica offre questa sintesi/traduzione in spirito di supplenza, in attesa che un giornale italiano paragonabile al Guardian pubblichi qualcosa di simile – su un tema che non ha il difetto di essere astruso, ma di non esserlo affatto.

Aggiornamento: chi desidera una traduzione integrale può ora trovarla qui, come segnalatomi da Brunella Casalini.