Posts tagged ‘politica’

22 Maggio, 2019

Autori d’Europa

 

aaa-1.pngMarco Calamari ha spiegato su “Punto Informatico” che cosa  avrebbe fatto se fosse stato eletto in Europa, elencando una serie di punti importanti e rinviando al programma comune europeo del Partito Pirata, anch’esso esposto per punti. È possibile metterli insieme in un’immagine leggibile? Ci provo.

La rivoluzione digitale, rendendoci tutti scrilettori,  ha trasformato il diritto d’autore in una questione d’interesse comune.

Il diritto d’autore si chiama così perché nasce come diritto di chi scrive e  non come diritto dell’editore o della piattaforma. Sono un autore se, parlando in pubblico, posso decidere che cosa dire, quando dirlo, come e sulla base di che dirlo. Se invece non ho il controllo di quanto scrivo, perché se lìè preso l’editore o perché sono trattato come un fascio di nozioni per l’uso, al di sotto della mia consapevolezza, dei signori della manipolazione, non sono più un autore e neppure una persona: sono un dato, che viene fatto parlare e danzare entro progetti il cui disegno e il cui senso non è costruito da me.

Il diritto d’autore e il diritto alla privacy sono due facce della stessa medaglia.  L’esclusiva della sfruttamento economico, che conferisce al diritto d’autore un effetto censorio, è secondaria: possiamo infatti  immaginare forme di remunerazione sociale dell’autore diverse dal monopolio politicamente conferito.  Il diritto d’autore, vocato alla pubblicazione e il diritto alla privacy, vocato alla riservatezza, confluiscono nel mio diritto  a parlare in pubblico con la mia voce –  che può realizzarsi pienamente solo se le mie fonti sono prevalentemente dissequestrate del copyright editoriale, vestigia dell’età della stampa.

Questo diritto, preso sul serio, implica l’elezione diretta di un’assemblea costituente europea, che scriva una costituzione comune e che la sottoponga a referendum – una  costituzione che preveda referendum legislativi e costituzionali e strumenti per far parlare, in modo trasparente, il potere legislativo con i cittadini. L’Europa può essere dei cittadini, solo se i cittadini sono i suoi autori.

Quanto si dice per l’Europa, vale a maggior ragione per l’Italia, per la quale è sempre più urgente dissequestrare la ricerca e l’istruzione dal controllo di Big Business e Big Government, perché i cittadini possano diventare autori, e non followers, dalla propria politica, autori, e non consumatori, dell’ambiente che attorno a loro viene sfruttato e devastato, autori, e non vittime, dal loro lavoro e del loro tempo libero.

In questo momento noi non siamo autori dell’Europa: siamo dati che vengono fatti parlare o tacere al servizio e nell’interesse dell’economia e delle sue concentrazioni, ed entro raggruppamenti – gli autoctoni, i migranti, i greci o i tedeschi – predisposti e messi l’uno contro l’altro da classificatori per i quali siamo dati e non siamo persone.  Siamo ancora – o di nuovo – nell’età del privilegio, dalla quale dobbiamo ancora – o di nuovo – uscire con il diritto dell’autore, che poi è il diritto di ciascuno a essere non in primo luogo oggetto d’economia, materiale e no, ma soggetto di politica.

12 giugno, 2011

“Ho sempre saputo di poter contribuire a fare la differenza”

Nella seconda metà degli anni ’30 del secolo scorso,  Alan Cranston  poteva capire e temere quanto ancora sfuggiva a buona parte dei suoi concittadini americani. Come corrispondente dell‘International News Service per l’Italia, la Germania e l’Etiopia conosceva il fascismo di prima mano.  Nel 1934,  faccia a faccia con Hitler,  aveva visto da vicino il suo sguardo vetrificato dal potere.

La sua America era ripiegata su se stessa, isolazionista. Era vitale farle sapere che il fascismo era molto più di un fenomeno locale. Ma esisteva una sola traduzione inglese di Mein Kampf, autorizzata dal detentore del copyright, al quale venivano versati regolarmente i proventi dovuti, ed espurgata dei passi più antisemitici e militaristi.

Cranston, in otto settimane, ne compose una nuova versione annotata, con l’aiuto di una schiera di dattilografe. Una di queste, ebrea, sulle prime trovò questa operazione inquietante, perché sembrava un servizio a Hitler. Ma la fede di Cranston nell’uso pubblico della ragione convinse lei e molti altri.  Un giornalista, uno studioso, non può ragionare al posto degli altri, selezionando per loro quanto conviene sapere e ignorare, ma può – e talvolta deve – dare agli altri qualcosa su cui pensare, fosse anche il volto non edulcorato del nazismo.

La versione di Cranston, a 10 centesimi la copia, trovò mezzo milione di lettori in dieci giorni  e una causa da parte dell’editore di Hitler per violazione del copyright. Nel luglio del 1939 un tribunale della più grande democrazia del mondo di allora diede torto a Cranston, mandando al macero altre 500.000 volumi già stampati. Poco meno di due mesi dopo le truppe tedesche cominciarono l’invasione della Polonia e la seconda guerra mondiale.

Cranston, traducendo Hitler, sapeva benissimo che avrebbe perso.  Ma sapeva anche che, se avesse taciuto, non avrebbe raggiunto quel mezzo milione di lettori che furono informati su chi fosse Hitler grazie alla sua consapevole violazione della legge.

Di solito racconto questa storia – che potrebbe essere la trama di un film, se il suo contenuto non fosse così giuridicamente anti-hollywoodiano – per illustrare quanto la cosiddetta proprietà intellettuale riesca a essere nemica della libertà dell’informazione e della ricerca. In questo momento, però, la dedico agli italiani che stanno andando a votare perché, come Cranston, continuano a credere di poter  contribuire a fare la differenza.

18 marzo, 2011

Beni comuni: appunti su Maurizio Franzini

Incontri sui beni comuni, Pisa 15 marzo 2011

Intuitivamente, quando parliamo di beni comuni intendiamo cose come la conoscenza, l’acqua, l’atmosfera, i pascoli e le lingue. La conoscenza, però, può essere soggetta a diritti di proprietà intellettuale, il servizio di distribuzione dell’acqua può venir privatizzato e i pascoli possono essere recintati.  Come dobbiamo trattare questa comunanza?  Come un carattere intrinseco del bene o come una conseguenza del suo regime giuridico?

Per gli economisti mainstream, una volta che un bene è privatizzato cessa di essere comune e non è più un problema, perché la proprietà privata garantisce l’efficienza del mercato come fattore di benessere sociale. Ma se lasciamo in sospeso la questione del carattere intrinseco o estrinseco (giuridico) della comunanza del bene, possiamo dire che un bene è comune quando non è esclusivo, cioè tutti possono fruirne, o per necessità – perché  non è privatizzabile – o per scelta.

Per la teoria economica mainstream, la non esclusione è un male, perché produce inefficienze, che si incarnano nella figura del free rider – uno che approfitta gratis di quanto pagano gli altri – e, quando il bene è “rivale”,  tragedie: le risorse comuni  che, come tali, non interessano a nessuno in particolare, sono destinate a venir dissipate, o a non essere neppure prodotte. Quando un pascolo è “di tutti”, ciascun pastore ne approfitterà fino a farlo diventare un deserto. Perché, dunque, dovremmo rinunciare a escludere un bene escludibile?

Beni comuni: schema Franzini

Perché mai – per esempio – il traduttore italiano di The Tragedy of the Commons ha scelto di pubblicarlo qui, ad accesso aperto, anziché tenerlo ad accesso riservato e farsi pagare?

In primo luogo l’esclusione ha dei costi, anche sociali. Se  impedisco ai poveri di accedere all’acqua, facilito il diffondersi di epidemie dovute a una scarsa igiene. Se metto The Tragedy of the Commons sotto copyright, obbligo chi volesse tradurlo in italiano a quarant’anni dalla sua uscita, anche gratis, a un’estenuante ricerca dei detentori attuali dei diritti.  Gli economisti mainstream sono talmente innamorati dei recinti da preferire l’integrazione del reddito all’apertura dei cancelli, ma questo stesso modo di ragionare presuppone che il più fondamentale dei beni comuni sia un certo benessere di base per tutti.

In secondo luogo, esistono casi – su questo Elinor Ostrom ha vinto un Nobel per l’economia – in cui forme di proprietà comune riescono ad essere usate e amministrate cooperativamente in modo non tragico. Studi empirici hanno indicato che la propensione a cooperare è inversamente proporzionale alla disuguaglianza fra gli attori.

In terzo luogo, il mercato può escludere dalle decisione sul bene persone che pure avrebbero interesse ad esso: poveri, generazioni future e non-fruitori. In questo momento non posso fare a meno di soffrire per il Giappone – che ha compiuto scelte energetiche certamente dannose per le generazioni future in nome di un utile privato immediato – anche se non vi possiedo qualcosa di patrimoniale, né potrei permettermelo.

Se trattiamo il mercato come un sistema di promozione del benessere sociale, i beni comuni – come beni escludibili che però si sceglie di lasciare senza recinto –  sono una sfida. Una sfida che suggerisce una domanda: quando e come è  possibile “fare meglio” del mercato?

Ho reso comuni questi appunti creativi della conferenza di Maurizio Franzini – perché arricchiti con link ed esempi miei pur potendoli tenere per me. Perché l’ho fatto? E perché dovrei continuare a farlo? Questa domanda riguarda la conoscenza – un bene comune molto particolare, di cui avrò modo di parlare ancora.

Slide di Marco Guidi

Immagine tratta da M. Guidi,  Beni pubblici e risorse comuni

14 luglio, 2008

Oligarchie frattali II

Se a  Pompeo Matroneo venisse in mente di recensire Prisco Architrave facendo commenti men che elogiativi – scrivendo, per esempio, che Prisco non è del tutto convincente quando suggerisce che vi sia una forte correlazione fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima – che ne direbbero Cariatide, Pluteo, Capitello, Solipsista, Interno e tutti gli altri colleghi?

Chi si aspettasse che, su tanta questione filosofico-botanica, chi appartiene a una comunità scientifica senta il bisogno di prendere posizione, per Prisco o per Pompeo, rimarrebbe amaramente deluso. Anche se Pompeo avesse osservato la massima continenza formale, la materia del contendere verrebbe trattata come del tutto secondaria: tutti parlerebbero solo del fatto che Matroneo ha  “attaccato” Architrave.  E se  Matroneo avesse voluto rafforzare la sua tesi citando un saggio di Agamennone Interno che nega la possibilità di connettere l’immortalità dell’anima agli asparagi,  lo stesso Interno si affretterebbe a intervenire a favore di Architrave – se, beninteso, questi si trovasse in una posizione gerarchicamente superiore a quella di Pompeo.

Così funziona una oligarchia, quando la sua occupazione del potere si è ormai interamente separata da ciò che in origine giustificava la sua preminenza. La discussione libera, che non sarebbe pericolosa per una comunità di ricerca reale, diventa distruttiva per una comunità di ricerca nominale – proprio come la libertà di espressione, che è il sale di una democrazia reale, è invece pericolosissima in una democrazia nominale.

Varrebbe la pena interrogarsi sui meccanismi che hanno trasformato la repubblica della scienza in una oligarchia insensata. Ma ciò non avverrà: solo Pompeo Matroneo pagherà per il suo ardire, come se del nesso metafisico-botanico fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima non interessasse né ai metafisici, né ai botanici.

Ricorda qualcosa? E’ successo, pochi giorni fa, che a qualcuno sia venuto in mente di raccontare su una pubblica piazza, raccogliendo voci di pubblico dominio, che una certa ministra sia diventata tale non per il suo merito, ma in  virtù di certi suoi ministeri, o che una certa legge, ancorché il presidente della repubblica si appresti a firmarla, non sia del tutto costituzionale. Di che cosa hanno parlato tutti? Del fatto che la certa ministra e il presidente della repubblica sono stati “insultati”, mentre la bizzarra politicizzazione di certi servizi non propriamente ministeriali o l’eventuale reiterato sfregio alla costituzione sono stati  accuratamente taciuti.

Le oligarchie grandi, a quanto pare, funzionano esattamente come le oligarchie piccole,  Si deplora, anche qui, che Aristofane, nel silenzio di Pericle, parli di politica in modo volgare. Ma nessuno si  chiede come mai, in questa città, Pericle se ne stia così zitto da non esserci proprio.

8 luglio, 2008

La democrazia, ad Atene

– Qual è l’organo fondamentale di una democrazia diretta? Ci pensi. Anche se non si ricorda nulla della costituzione di Atene, dovrebbe esserle facile dedurre la risposta … –

Il candidato guarda la commissione con gli occhi sgranati, cercando disperatamente qualcosa che non riesce  a immaginare.

Questa scena è ormai frequente ai miei esami, in una facoltà di scienze politiche tutt’altro che periferica. Gli studenti non hanno più idea di che cosa significhi parlare in assemblea, decidere in prima persona e  partecipare alla vita politica da cittadini e non da spettatori.  Questi giovani sono gli stessi che non si vergognano a chiedere alla commissione il favore di superare l’esame senza merito – “E’ l’ultimo esame…”; “Ma io ho studiato…”; “Ma è la seconda volta che vengo…” – come se fosse per loro scontato  che chiunque abbia un minimo di potere abbia titolo a esercitarlo in modo arbitrario.

Ai miei esami si parla di democrazia diretta perché quest’anno, per accidente, c’è in programma il Critone, un dialogo giovanile di Platone in cui Socrate sostiene che, in un ordinamento legittimo, un cittadino onesto deve rispettare le sentenze dei giudici, perfino quando gli sembrano ingiuste. Una res publicauna comunità politica che appartiene a tutti –  si fonda su un sistema di norme condivise:  se i cittadini cominciassero a disobbedire alle sentenze, questo sistema di norme perderebbe la sua autorità e la repubblica cesserebbe di esistere. D’altra parte, come già si diceva, una repubblica è tale se e solo se si costruisce su uno spazio pubblico nel quale i cittadini possono muoversi e parlare liberamente.

Ad Atene c’era una democrazia diretta, che trattava ciascun cittadino come un militante. Socrate, che faceva discorsi assai poco democratici, era stato condannato per un reato d’opinione. Eppure, pur continuando a professare le sue idee, scelse di non sottrarsi né al processo, né all’esecuzione della sentenza. Perché lo fece? Perché voleva che la sua argomentazione politica e morale conservasse la sua autorevolezza. C’è – c’era – una bella differenza fra un resistente civile, che opera per essere processato e obbligare il sistema a fare i conti con se stesso, un corruttore furbastro che cerca di sottrarsi alla giustizia e un tiranno che si fa fare leggi e sentenze a suo vantaggio. Ad Atene anche il cittadino comune lo capiva.

Il caso Socrate è stato convenzionalmente attualizzato per illustrare gli esiti totalitari di una democrazia populistica. Ma ad Atene c’era ancora una democrazia e i cittadini erano ancora cittadini. Ad Atene Socrate ha avuto il privilegio di poter fare un discorso serio e di venir preso sul serio.

Ad Atene si faceva così.